
ARTURO CASTELLI
Arturo CASTELLI
(Brescia 1870 – 1919)
Giaguari è un olio su tela di Arturo Castelli datato 1918, dettaglio temporale che conferisce all’opera un’importanza ulteriore, trattandosi di una delle ultime testimonianze pittoriche del pittore, scomparso l’anno successivo a Brescia, città in cui si è svolto tutto l’arco della sua carriera artistica. Ed è proprio nella città lombarda che Castelli è conosciuto soprattutto per la sua produzione celebrativa e monumentale, per i pannelli decorativi eseguiti in ville private, nel Credito Agrario e nello scalone della Loggia. Se nelle opere pubbliche l’artista ci appare come grande interprete e narratore, dotato di rapidità
d’esecuzione e di efficace e brillante scioltezza cromatica, memore della pittura veneta del Cinquecento, nelle opere su cavalletto, dalle atmosfere infinitamente più intimiste e liriche, adotta un simbolismo che non ha nulla a che fare con la retorica della decorazione ufficiale e che invece si rifugia nelle perturbanti note evocative e decadenti di un colorismo cupo e calibrato. Nella tela inedita Giaguari, Castelli si cimenta in un raffinato soggetto animalier, rarissimo se non unico nella sua produzione su cavalletto. Un notturno in cui le ombre risultano avvolgenti e donano alla scena un senso di mistero e tensione. Dalle tenebre emergono, come unici punti luce, i corpi nervosi e vigorosi dei due giaguari che si inseguono, forse in una danza amorosa tra maschio e femmina, sulle rive di un piccolo specchio d’acqua nel cuore della foresta. I corpi screziati che si mimetizzano nella natura, le mosse leste, le lunghe code che si intrecciano, insieme all’equilibrio della tavolozza scura mettono in evidenza il tocco sicuro e calibrato del pennello. Se nel resto della sua produzione, Castelli adotta un ductus pittorico sciolto e fatto di ampi tocchi quasi espressionisti, nei Giaguari sceglie un linguaggio più terso e rigoroso, assecondando il sostrato verista della composizione, in cui gli animali risultano perfettamente resi nelle anatomie e negli atteggiamenti[1]. Ma dietro l’apparente ascendenza decorativa del quadro, si insinuano aspetti simbolisti e allegorici che permeano tutta la poetica del pittore, pervasa da una vena melanconica legata a filo diretto con la sua vicenda personale.
Felino che caccia con il favore dell’oscurità, il giaguaro viene associato simbolicamente al mondo dell’al di là, tematica affrontata in numerose opere da Arturo Castelli. Nel polittico I Fiori (attestati anche con il titolo I fiori della morte), esposto alla Biennale di Venezia del 1901 e accompagnato dalla frase «Pensi tu che tanta bellezza siasi disciolta nelle putride tombe? Apri gli occhi: vedi questi fiori che mai sono sazi di rispuntare?», Castelli assume il ruolo di pittore-poeta che «trasporta nel regno del sogno dove esulta il canto della vita, o geme l’abbandono di una tristezza prossima alla morte»[2]. Molto amico del coetaneo e letterato bresciano Vincenzo Cesare Lonati, «guida e conforto nelle sue prime conquiste»[3], studioso di letteratura greca, latina, rinascimentale e soprattutto di Dante, viene rappresentato da Castelli nell’evocativo ritratto corale La musica e condivide con lui la passione per lo slancio letterario e spirituale che va ben al di là delle mere conclusioni di poetica verista. Le Vergini, Medio Evo, il Ritratto dell’avvocato Paroli sono solo alcuni dei dipinti che Castelli carica di riferimenti storici, musicali, sinestetici e letterari, così come i Giaguari, che nell’icastica rappresentazione del loro felpato incedere notturno sembrano ricalcare le parole dantesche sulla lonza «leggiera e presta molto che di pel macolato era coverta» incontrata nella selva oscura. E dunque, la dicotomia tra vita e morte, tra sogno e realtà, che traspare da I fiori e da opere giovanili come Il compianto del 1891, sembra permeare anche la tela in esame, attraverso un ricercatissimo gioco di meditazioni sul tema della morte incombente. Esso viene vissuto però nella chiave simbolica del corteggiamento amoroso in una rigogliosa e ambigua natura notturna, sfiorando evidentemente la tematica ossimorica di eros e thánatos, risolta in un böckliniano dipinto animalista che rende l’opera il vero canto del cigno dell’autore. Di lì a poco, nel 1919, infatti Castelli moriva a soli 49 anni, «nella piena maturità della vita, nella limpida freschezza della psiche, e forse alla vigilia di nuove vittorie di lavoro più intenso e più rimuneratore, quando un male insidioso e fatale lo colse…»[4]. L’atmosfera trascendente e simbolista di questo e di altri dipinti hanno fatto assimilare più volte l’anima poetica di Castelli allo spiritualismo decadente dei pittori francesi Eugène Carrière (1849-1906) e Aman Jean (1858-1936)[5], in una compiutezza esecutiva e in una costante ispirazione che lo hanno reso un pittore sempre condotto dal «canto dell’elegia»[6].
Arturo Castelli, nato a Brescia nel 1870 e rimasto molto presto orfano di padre, si ritrova a seguire la sua attitudine per la pittura tra difficoltà e ristrettezze economiche. Tuttavia, prima da autodidatta e poi da allievo della Scuola Moretto, il giovane pittore cresce nella Brescia di fine Ottocento e nel graduale passaggio dall’estetica post-romantica a quella liberty. Proprio di questi sviluppi stilistici Castelli si fa interprete attraverso una pittura dagli accenti evocativi e spirituali, di ascendenza simbolista, che si declina alla perfezione sia nella decorazione pubblica che nella più intima e privata pittura da cavalletto. «Insofferente alla disciplina accademica»[7] si fa strada a fatica e con i propri mezzi nell’ambiente artistico bresciano e, insieme a pittori quali Gaetano Cresseri (1870-1933) e Cesare Bertolotti (1854-1932), partecipa ai più importanti cicli decorativi della città, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, assecondando quel carattere eclettico e versatile della pittura allegorica, conferendole però un singolare carattere lirico e individuale.
Il pittore raggiunge fama e considerazione dei committenti non in maniera immediata, ma esordisce con successo, ventisettenne, alla Biennale di Venezia del 1897 con La musica, opera che, insieme a Le Vergini, della Biennale del 1899 e I fiori della Biennale del 1901, definiscono sin dal principio della sua produzione una tendenza decadentista dai toni melanconici, che si riscontrano anche nella Giovine madre con bambino dell’Esposizione Artistica di Verona del 1900.
Come decoratore, affianca dapprima Arnaldo Zuccari (1861-1939), con cui adorna di affreschi la sala da pranzo della villa Bertelli a Nozza di Vestone. In questa occasione, banco di prova delle opere pubbliche future, si cimenta, insieme al maestro, in immagini di chiaro stampo preraffaellita.
In seguito, affianca Gaetano Cresseri nelle decorazioni sacre della parrocchiale di Bagolino, fino a giungere a committenze di maggiore rilevanza, tra cui i pannelli dello scalone del Credito Agrario di Brescia, in cui lavora di nuovo con Cresseri e con Carlo Chimeri (1852-1925). Di Castelli sono i tre riquadri con le personificazioni dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio, oli di imponente impianto allegorico, che sottende un simbolismo celebrativo stilisticamente memore della grandiosità michelangiolesca. La sensibilità poetica di Castelli ritorna anche nella decorazione della Banca Popolare Cooperativa, in cui si occupa di almeno quattro tele delle quali ci è pervenuta solo quella raffigurante l’allegoria dell’Abbondanza: personaggi tratti dalla mitologia, tra cui Cerere, dea del raccolto e della fecondità, e Mercurio, dio del commercio, degli affari e dei guadagni, che vengono rappresentati tra pampini d’uva, anfore piene di vino e vari tipi di frutta, in una dimensione di prosperità certamente congeniale a un istituto di credito nato da poco. Al 1902 risale forse la sua opera pubblica più significativa: la decorazione dello scalone della Loggia di Brescia con il riquadro centrale e più importante Brescia armata, in cui, ancora una volta, ritorna l’ispirazione rinascimentale, ma in chiave veneta, dal momento che sembra soprattutto fare una riflessione sui maestosi brani decorativi di Veronese. Nel frattempo, continua la sua produzione su cavalletto, partecipando nel 1906 alla Mostra Nazionale di Milano per il Traforo del Sempione con L’ora nera, allegoria riprodotta con una litografia nel 1915 sulla rivista «Emporium» e lodata dall’autore dell’articolo per la «rara potenza fantastica» e il «fermo, austero, contenuto vigore di stile»[8]. Nel 1907, di nuovo a Venezia, espone Medio Evo e Milizia antica, opere in bianco e nero positivamente accolte dalla critica. Dallo stesso anno, è socio dell’Ateneo civico e nel 1911 partecipa al concorso per la direzione della Pinacoteca Tosio Martinengo, dove sono conservate diverse sue opere. Nel frattempo, insegna materie artistiche alla scuola Moretto, dove anche lui aveva studiato in giovinezza. Ancora nel pieno della carriera, Castelli muore prematuramente nel 1919. Trent’anni dopo, l’Associazione artistica bresciana gli dedica una mostra antologica, dove vengono esposte opere come Paggio con boccale, alcuni ritratti femminili, il dipinto di impianto secessionista Venezia, e l’onirico Lampada della vita.
- Elena Lago
Bibliografia di riferimento:
L’ora nera di Arturo Castelli, «Emporium», XLII, 1915, 250, p. 318.
I nostri Lutti. Arturo Castelli, in Commentari dell’Ateneo di Brescia di scienze lettere ed arti, Brescia, Tipo-litografia bresciana, 1919, p. 141-143.
G. Ronchi, Arturo Castelli, «Brixia Sacra», X, 1919, 6, pp. 188-189.
Mostra postuma di Arturo Castelli, catalogo della mostra a cura di P. Feroldi, Brescia, Associazione
Artistica Bresciana, 12 – 30 giugno 1949
Brescia postromantica e liberty. 1880-1915, catalogo della mostra a cura di B. Passamani, F. Robetti
(Brescia, Complesso di Santa Giulia, giugno – agosto 1985), Brescia, Grafo 1985.
[1] «…passa da una tecnica franta nei ritratti, laddove anche il simbolo è latente, a una resa più levigata di mano in mano che il dato simbolista è emergente…», cit. in Brescia postromantica e liberty. 1880-1915, catalogo della mostra a cura di B. Passamani, F. Robetti (Brescia, Complesso di Santa Giulia, giugno – agosto 1985), Brescia, Grafo 1985, p. 210.
[2] Mostra postuma di Arturo Castelli, catalogo della mostra a cura di P. Feroldi, Brescia, Associazione Artistica Bresciana, 12 – 30 giugno 1949, p. n. n.
[3] Mostra postuma di Arturo Castelli, catalogo della mostra a cura di P. Feroldi, Brescia, Associazione Artistica Bresciana, 12 – 30 giugno 1949, p. n. n.
[4] I nostri Lutti. Arturo Castelli, in Commentari dell’Ateneo di Brescia di scienze lettere ed arti, Brescia, Tipo-litografia bresciana, 1919, p. 141.
[5] «Egli era un mistico tendente alla scuola di Verlain, scuola che in pittura, se portò alla scienza coloristica del Ghil, da Carrière ad Aman Jean diede quella meravigliosa serie di opere significative…», Ivi, p. 143.
[6] Mostra postuma di Arturo Castelli, catalogo della mostra a cura di P. Feroldi, Brescia, Associazione Artistica Bresciana, 12 – 30 giugno 1949, p. n. n.
[7] Ibidem, p. n. n.
[8] «L’ora nera di Arturo Castelli», «Emporium», XLII, 1915, 250, p. 318.
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